Terroristi benestanti ma non c’è da stupirsi

Pinella-Di-GregorioSe c’è una cosa che l’attacco a Dacca dimostra è l’inadeguatezza delle interpretazioni con cui si è abituati a leggere il fenomeno terroristico legato all’Isis. Due letture dominano la scena del dibattito: la spiegazione “culturalista” dello scontro tra civiltà e quella terzomondista imperniata sulla riproposizione della rivolta dei dannati della terra. Entrambe le letture sembrano convergere, da punti di vista opposti, sulla medesima idea: per essere terroristi bisogna essere diseredati, emarginati, esclusi: altro da noi e dalla nostra storia.

Così, ci si trova impreparati di fronte alla notizia secondo cui ben tre membri del commando terroristico suicida in Bangladesh fossero giovani acculturati e benestanti e che, nonostante ciò, abbiano imbracciato armi d’assalto e “machete” per torturare e uccidere con ferocia esseri umani indifesi.

Da storica proverò a problematizzare. Nel 1947, la Gran Bretagna non si sottrasse alla tradizione imperiale di definire frontiere e catalogare popoli con la creazione di due Stati: l’India a maggioranza indù e il Pakistan a maggioranza musulmana. Quest’ultimo, però, fu diviso in due tronconi: il Pakistan occidentale e quello orientale che non avevano contiguità territoriale essendo separati da oltre millecinquecento chilometri di confine indiano. Nel 1971, dopo nove mesi di guerra civile, i nazionalisti bengalesi indù, sostenuti dal governo di New Delhi, ebbero la meglio e il Bangladesh ottenne l’indipendenza. Da quel momento, il Paese fu caratterizzato da fortissima instabilità politica, da marcata diseguaglianza economica e, infine, attraversato da ripetuti attacchi terroristici di matrice sunnita.

In questo contesto, come in altri, l’Isis è divenuto – ed è questa la sua forza – una sorta di “franchising” globale per movimenti terroristici che hanno radici nelle storie e nei conflitti locali; inoltre, il califfato offre una sorte di copertura più am- pia e (consentitemi) più ideologica, che è quella dell’anti-colonialismo e dell’anti-occidentalismo.

Non dovremmo stupirci, allora, che alcuni membri del commando provengano da ceti sociali elevati con un buon grado di studi e di conoscenze. Gli stessi barbuti di “al Baghdadi”, che siamo abituati a considerare poco più che dei tagliagole, in uno dei video propagandistici diffusi in rete nel 2015 rivendicavano la nascita dello Stato islamico come risposta all’artificiosità dei confini tra Siria e Iraq, frutto della spartizione tardo-coloniale tra Francia e Gran Bretagna operata durante e dopo la Prima guerra mondiale.

Ci troviamo, quindi, di fronte, da un lato, a una narrazione del rapporto tra Occidente e il resto del mondo che sconta un passato di dominio coloniale che non passa; dall’altro, a una cultura occidentale che sembra avere perduto la propria attrattiva nell’immaginario delle giovani generazioni a ogni latitudine.

[LA SICILIA 5 luglio 2016]